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Romagna Rulez?

Romagna Rulez?

Un’oriunda tra veri romagnoli. Ripensando all’ultimo incontro di Salottino, mi viene naturale partire da un dato di fatto. Quello che vivo qui da 47 anni, ovvero da quando i miei genitori, uno siciliano e l’altra veneta, decisero di lasciare la ridente e nebbiosa Emilia per trasferirsi in Romagna. Non c’era molta scelta: Forlì o Rimini. Loro scelsero Forlì per motivi di vicinanza ad alcuni parenti di mia madre.

E questo ha condizionato, nel bene e nel male, tutta la mia vita. Non sono romagnola, non ho parenti romagnoli e nemmeno antenati alla lontana. E per anni ho letteralmente evitato tutto quello che questa regione rappresentava: io abituata a viaggiare sin da piccola per coltivare le mie amate lingue straniere, io abituata a leggere, a vedere, ad osservare ad essere aperta, a parlare con tutti, mi ritrovavo nella periferia di una città (Forlì) che, seppur capoluogo di provincia, aveva ben poco da offrirmi e anzi mi isolava proprio per le mie origini non romagnole.

Ho impiegato gran parte della mia vita, dopo aver vissuto tanto fuori, a riconciliarmi con questa terra. Nel 2017 la Romagna è diventata una destinazione. Così si chiama in gergo di marketing turistico. Ma per me rimane un luogo, una terra, un insieme perfettamente imperfetto nel quale vivo, riconoscendone i difetti ma soprattutto i tanti pregi.

Qui le persone sono ancora autentiche, originali, dipendenti dalla loro totale e forzosa indipendenza, derivante da un passato che ha fatto della ricerca della libertà e del fare a modo proprio un passaggio obbligato persino nella nascita dello stato italiano.

 

Il romagnolo è selvatico come la terra che coltiva da secoli, quella al confine tra Romagna e Toscana, ma anche quella più a nord, dove le valli acquitrinose del Delta del Po’ raccontano di briganti, di erbe palustri, di zanzare malefiche e di fame atavica. Proprio queste secolari difficoltà, lo hanno lasciato diffidente verso chi non conosce, e anche verso ciò che non conosce, ma capace di inventare, di creare, di produrre per la semplice necessità di risolvere i problemi quotidiani.

Un limite, questa sorta di chiusura è indubbiamente un limite, ma anche una ricchezza. Riprendo le parole di Vincenzo, nato da genitori napoletani e stabilmente in Romagna: il napoletano sa chi è e cosa sa fare e te lo vuole far sapere. Il romagnolo, no. A lui non interessa, anzi prova quasi un senso di fastidio.

In passato ho lavorato per la redazione di un giornale locale. Andavo ad intervistare imprenditori eccellenti. E al rientro mi chiedevo sempre perché non avessero fatto fortuna fuori dai confini romagnoli, perché avessero quasi paura di esporsi e perché a volte del loro successo nessuno sapesse quasi nulla. A distanza di anni, una risposta ancora io non ce l’ho. Ma continuo a sentire le lagnanze di vario genere che a volte arrivano da alcuni settori del mondo imprenditoriale che frequento. Ci si chiede perché si faccia fatica a farsi conoscere, perché è così difficile esportare, perché la Romagna non è conosciuta, perché chi ci vive, ci lavora o ci studia, ha quasi l’impressione di vivere in una enclave che ostinatamente vuole rimanere così come è.

Tranne che per quella lunga striscia di spiaggia (così la chiama Cristiano Cavina) che corre dai lidi ravennati fino a Cattolica. Quella ci fa da richiamo, tanto che quando parliamo con qualcuno, italiano o straniero che sia, non parliamo di Romagna. Rimini o Riccione sono le nostre parole pass partout. Altrimenti ci perdiamo a spiegare con immensi giri di parole le piccole e preziose perle in cui viviamo. Piccole città o borghi sperduti nelle colline dove la mattina ci si dà ancora il buongiorno anche se non ci si conosce.

Il romagnolo doc non vuole essere conosciuto, sta ben così, vive così, e non si sogna nemmeno di andarsene da un’altra parte.

Una contraddizione in termini. Incomprensibile per chi non ha sangue romagnolo come me. Creatività, un discreto spirito imprenditoriale (ma non sempre), originalità, autenticità: opportunità che molto spesso rimangono inespresse.

E così, dopo un giro di tavolo, si scoprono le tante eccellenze che nei decenni hanno lasciato il nostro territorio per migrare altrove: la produzione della prima birra artigianale con Angelo Pasqui, quella della seta con la coltivazione dei bachi, e tanto altro.

E si scoprono anche i luoghi comuni, le banali ricorrenze simboliche che questa terra non ha saputo proteggere: la piadina, la caveja, i cappelletti. Ma quanti sanno veramente cosa c’è dietro? A parte il folclore un po’ semplice che ha svilito tradizioni, storie, abitudini. Insomma, le verità vere di questa terra.

Il romagnolo. Individualista, si. Accogliente, anche. Uno che sa vivere bene ed esporta questa filosofia in modo naturale, autentico e spontaneo. Le radici sono importanti, e lo dice una che non ne ha, ma forse, andrebbero curate, orientate, a volte potate per dare vita a nuovi percorsi, magari protette ma non troppo.

Romagna Rulez? Sì, se i romagnoli cominciano a crederci veramente.

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